LECCE – Lecce, un caffè in ghiaccio con latte di mandorla, un pasticciotto e… Santa Croce. Dissacrante unire sacro e profano? No, semplice realtà: Santa Croce è ciò che meglio di ogni cosa rappresenta Lecce, la sua pietra colore del burro, la sua arte totalizzante, a volte soffocante, la sua natura capricciosa e orgogliosamente sfacciata.
Come una donna, un artista, un poeta, Lecce e la sua Santa Croce ammaliano, conturbano, conquistano e restano negli occhi e nel cuore di chi le vede, fosse anche solo per pochi minuti.
Proviamo quindi a raccontarla Santa Croce, pur con la consapevolezza che non bastano le poche battute di un articolo, perché Santa Croce è la trama di una storia che si fonde con la mitologia, scivola nelle segrete figure dell’esoterismo e riemerge alla luce della divina conoscenza che tutto può e tutto nobilita, quantomeno nelle intenzioni delle mani illuminate che ne ricamarono gli altari e la facciata.
Santa Croce è raggiungibile da ogni via del centro storico e da qualunque prospettiva la si osservi, lo stupore è assicurato, ma lo scorcio più suggestivo è senza dubbio quello di cui si può godere giungendo dalla piazzetta antistante l’Hotel Patria: svoltato l’angolo, Santa Croce fa capolino invitando il viandante ad andarle incontro per poi manifestarsi in tutto il suo splendore.
Senza soffermarci su miti e misteri della genesi di questo gioiello barocco, inizieremo oggi col raccontare che la costruzione della struttura oggi ubicata in via Umberto I, risale al periodo che va dal 1549 al 1646 e si deve alla presenza in città dei Padri Celestini, stanziatisi per volere del Conte di Lecce Gualtieri VI di Brienne verso la seconda metà del XIV secolo.
Nella seconda metà del 1300 infatti, fu proprio Gualtieri VI a far edificare per i Padri Celestini un convento con annessa chiesa nei pressi delle antiche mura urbiche, dove già esisteva una chiesa che fu sostituita da quella dedicata a Santa Maria dell’Annunziata e a San Leonardo Confessore, ma i leccesi, popolo ben radicato nella sua fede e tradizioni, continuarono a chiamarla Santa Croce.
Tutto procedeva nel migliore dei modi, fino a quando, nel 1539, Carlo V d’Asburgo, con la costruzione del suo castello, espropriò e inglobò una notevole quantità di edifici, compreso il convento e la Santa Croce dei Padri Celestini, che ormai senza un tetto sopra la testa e soprattutto senza un luogo in cui pregare per le proprie e le altrui anime, dopo un pellegrinaggio spirituale durato dieci anni, trovarono una mano tesa nel governo Spagnolo, che non solo concesse loro una vasta area nei pressi della sinagoga di Lecce, ma garantì anche un introito di circa 233 ducati annui.
I Padri Celestini potevano finalmente progettare la loro nuova sede.
A chi fu affidato l’incarico?
Su questo punto la storia si fa fumosa: nel 1634, l’Infantino attribuisce a Belli Licciardo la volta dell’antisacrestia, indicandolo anche come esecutore del resto della struttura.
Gli studiosi hanno identificato in Belli Licciardo, lo scultore e architetto Gabriele Riccardi, ma se così fosse, tenendo in considerazione le quattro colonne della Cattedrale di Otranto datate 1524, si dovrebbe ipotizzare per il Riccardi un’attività sicuramente redditizia, ma inverosimilmente lunga.
Si suppone perciò che si tratti di un caso di omonimia, fatto questo supportato dall’assenza del nome Riccardi in un documento risalente al 1582 in cui compaiono invece, tra gli altri, Garappa, Perulli, Panettera e Renzi, incaricati però, di dare vita ad un progetto che, quello sì, potrebbe essere a firma del Riccardi.
In ogni caso, i Padri Celestini, con molta probabilità iniziarono i lavori con la costruzione del convento, furono erette le due ali del chiostro adiacente una e perpendicolare l’altra, alla navata sinistra della chiesa, per poi completare i lavori tra il 1659 e il 1695.
Veniamo finalmente alla fabbrica di Santa Croce che si presenta come una basilica a cinque navate, con navata centrale delimitata da archi retti da sedici colonne con capitelli corinzi, soffitto rivestito in legno e impreziosito nel centro dal dipinto della Trinità.
Le due navate laterali, adiacenti al perimetro della chiesa, ospitano sette cappelle per lato, mentre le due navate intermedie sono destinate al calpestio e culminano in volte a crociera.
Il transetto è un trionfo di luce filtrata dalla cupola, datata 1590, retta da quattro archi ogivali.
Ciò che all’inizio dei lavori non era stato messo in preventivo, fu la straordinaria fugacità del gusto barocco che in corso d’opera spinse le maestranze a modificare, arricchire, alleggerire, mescolare stili e particolari.
Ogni cappella laterale ospita un altare, mentre l’altare maggiore in marmo, proviene dalla chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo.
Nelle cappelle, a partire da destra, sono presenti, nell’ordine le tele raffiguranti Sant’Antonio da Padova, Natività, San Michele Arcangelo, San Filippo Neri, Sant’Oronzo, Sacro Cuore di Gesù, Croce e Reliquie, Trinità.
Lasciandosi alle spalle l’altare maggiore e procedendo verso l’uscita, le tele raffigurano: San Francesco di Paola, La Deposizione, Sant’Irene, Sant’Andrea Avellino, Madonna del Carmine, Annunciazione, Immacolata, San Pietro.
Da segnalare, tra le altre meraviglie, l’affresco cinquecentesco della Vergine di Costantinopoli e le statue opera di Cesare Penna di San Luca e Sant’Andrea Apostolo.
Se l’interno è un omaggio al respiro dell’Altissimo, l’esterno è un inno alla maestria decorativa e alla bizzarria umana, che nel prospetto ha creato un misterioso valzer in cui angeliche figure si congiungono, o quantomeno convivono con misteriosi simboli di probabile natura esoterica, certamente pagana.
Ponendosi di fronte alla facciata, saltano all’occhio tre sezioni che raccontano una storia unica e universale: la croce trionfa sempre sugli infedeli, in pieno rispetto del credo e delle gesta dei Celestini il cui stemma, posto sulla sommità del rosone centrale e su quella della basilica, reca inscritta proprio una croce.
Nella prima sezione troviamo il portale, elegante, lineare, decorato con due colonne per lato.
A destra e a sinistra, i portali minori si aprono in corrispondenza delle navate laterali.
Sui portali laterali e ai lati di quello centrale, delle statue alloggiate in nicchie ovali, osservano il pellegrino che entra in Santa Croce.
A rendere la lettura di questa prima parte del prospetto ancor più affascinante, a conclusione dei portali, sono stati posti tre stemmi evidenziati dalla presenza di una decorazione sferica e, in corrispondenza dei portali minori, due rosoni in miniatura che richiamano quello centrale.
Alzando lo sguardo fino alla balaustra, si noterà che il ritmo è scandito da sei colonne che sorreggono la trabeazione decorata da tredici telamoni, simbolo del trionfo della virtù sul vizio, in corrispondenza delle cariatidi sottostanti, mentre inquietanti presenze dalle sembianze zoomorfe come arpie, sirene, sileni, un leone, un grifone, un’aquila e un drago, la Lupa di Roma ed Eracle che regge la pelle del leone: gli infedeli sono condannati alla sconfitta.
I capitelli corinzi, i simboli papali e imperiali, nonché il tripudio di putti in festa, segnano l’inizio del secondo ordine del prospetto caratterizzato dalla presenza di quattro colonne e dell’imponente rosone centrale e che ospita nicchie riccamente decorate con le statue di San Benedetto e San Pietro Celestino, mentre le altre statue, poste all’estremità del cornicione, sono l’allegoria di Fede e Fortezza.
Il terzo e ultimo ordine alleggerisce la tensione con il prezioso fastigio con tiare pontificali e insegne asburgiche che spezza il ritmo serrato della narrazione lasciando intravedere porzioni di cielo e luce, nonché una definitiva dimostrazione della potenza della chiesa e della corona spagnola dopo la rivolta filofrancese di Masaniello del 1647.
Sebbene il nostro interesse oggi verta sulla chiesa, non si può non fare accenno al Convento dei Padri Celestini i cui ordini del prospetto sono attribuiti allo Zimbalo uno e al Cino l’altro.
Come tutti sanno, Palazzo dei Celestini, come è ora conosciuto, ha una seconda uscita, su via XXV luglio, ricostruita nel 1817 ed è ora sede della Prefettura e della Provincia.
di Claudia Forcignanò